Il 28 aprile, dalle 12:30 fino a dopo la mezzanotte, gran parte della penisola iberica ha subito un Blackout (con B maiuscola) della rete elettrica che ha avuto conseguenze simili a un disastro naturale, anche se senza vittime. In assenza di un rapporto finale, si ha già un’idea precisa di cosa sia successo e perché sia successo. Ancora più importante, ci sono lezioni che devono essere apprese da quell’evento.
Con il Blackout è stato confermato che l’energia, e in particolare l’energia elettrica, è il cibo dell’economia: senza di essa l’attività economica si riduce quasi a zero a causa della dipendenza che la vita moderna ha dall’ elettricità.
Siamo abituati a suddividere le fonti di generazione elettrica in rinnovabili (sole, vento, acqua, geotermia e biomasse), non rinnovabili (carbone, idrocarburi e loro derivati) e, a parte, le nucleari. Metaforicamente, gli alimenti rinnovabili sono alimenti “organici” e le non rinnovabili fast food, con la differenza che i primi sono più sani, ma più costosi e stagionali, mentre i secondi sono più economici e si possono trovare tutto l’anno dappertutto.
La prima lezione del Blackout è imparare a distinguere le fonti di energia in un altro modo: in “intermittenti” e imprevedibili (ad esempio, parchi solari ed eolici) e “costanti” e affidabili (ad esempio, nucleare, termoelettrico e idroelettrico). La Spagna, a causa delle sue condizioni geografiche, ha optato per le prime, garantendo che i costi di generazione siano inferiori a quelli delle fonti “costanti”. Di conseguenza, queste ultime sono state relegate a favore di quelle intermittenti. Infatti, al momento del Blackout, diverse centrali termoelettriche erano spente e fredde perché la loro energia era più costosa del solare fotovoltaico (era mezzogiorno!), che rappresentava, con le altre rinnovabili, il 70% dei consumi. Una conseguenza inaspettata fu che le oscillazioni delle energie intermittenti non poterono essere gestite correttamente, “i fusibili” saltarono e il risultato fu catastrofico.
Pertanto, una seconda lezione è che le fonti rinnovabili intermittenti sono buone ed economiche, ma necessitano di una rete di distribuzione robusta, con una matrice di generazione variegata (come un buon menu) e investimenti consistenti per stabilizzare le oscillazioni e immagazzinare l’energia prodotta in eccesso (leggi, bollette più care).
Insomma, la colpa dell’interruzione di corrente non è stata delle rinnovabili, né tanto meno della transizione energetica, ma della debole gestione della rete che, altro limite, non è nemmeno adeguatamente integrata nella rete europea, la quale avrebbe potuto dare un soccorro per riprendersi. Da qui una terza lezione: la complessità delle reti elettriche e l’eventualità di blackout dovuti a diverse cause, anche naturali, rende necessaria l’interconnessione con i paesi vicini.
Infine, anche la generazione distribuita, quella delle case e delle aziende private, pensata per l’autoconsumo ma utilizzata per vendere energia elettrica alla rete, è stata disconnessa con il Blackout, per motivi di sicurezza, vanificando l’attesa di quegli utenti di ricorrere alla “loro” energia elettrica. Naturalmente, questa dipendenza dalla rete esterna può essere gestita tecnicamente per evitare questo inconveniente, ma costa molto.
Infine, ci sono anche lezioni per la Bolivia: l’esaurimento delle riserve di gas e il fallimento dello statalismo sterile la costringono a scommettere sulle fonti rinnovabili di cui dispone, costanti e intermittenti. Ma questa transizione urgente deve essere fatta in modo intelligente: con un menù variegato, con il supporto di centrali termoelettriche a ciclo combinato e con sistemi di gestione della rete digitalizzati. Soprattutto, con un’apertura al capitale privato costruttivo che il modello del MAS non è stato in grado di dare.