Su richiesta del “rispettabile pubblico”, integro la mia rubrica di 15 giorni fa con altri aneddoti legati al mio “essere italiano” in Bolivia, cercando, questa volta, di rendere più espliciti alcuni insegnamenti. Se il dolore è il sale della vita, gli aneddoti, soprattutto quelli simpatici, sono il miele dell’esistenza.
Per l’articolo di oggi ho selezionato l’area dell’insegnamento universitario, che ho praticato tra il 1974 e il 2015.
Una volta, sono stato invitato dalla Facoltà di Agronomia a far parte del tribunale d’esame per aspiranti insegnanti nell’area delle materie di base. Poiché l’argomento della presentazione orale si sorteggiava in anticipo, era necessario assicurarsi che il candidato non avesse memorizzato il rispettivo capitolo di un libro di testo, ma avesse effettivamente capito di cosa stava parlando.
Con questo in mente, dopo che un candidato aveva spiegato magistralmente la parte teorica dell’argomento “peso, massa e densità”, mi è venuto in mente di chiedergli come avrebbe preparato il cocktail “chuflay” per attenuare le fredde notti d’inverno nella fattoria dell’altopiano che apparteneva a quella facoltà.
Il candidato è prima entrato in uno stato catatonico (silente e paralizzato), poi mi ha fatto ripetere la domanda un paio di volte perché non capivo la sua relazione con l’argomento dell’esame. Ovviamente, il rapporto consisteva nell’ordine corretto in cui venivano aggiunti gli ingredienti, che di solito è: ghiaccio, “singani” (una grappa locale) e Canada Dry, una soda. Una volta chiarita la pertinenza della domanda, il candidato non seppe rispondere correttamente: prima il ghiaccio, poi l’alcool, perché è meno denso dell’acqua, e infine la soda, in modo da facilitare la miscelazione di entrambi gli ingredienti liquidi. Era un’applicazione pratica e semplice del confronto di densità, come ho spiegato al candidato che a quel punto stava visibilmente sudando. Il candidato poi non è stato in grado di rispondere all’ulteriore domanda sul perché si mette per primo il ghiaccio nel bicchiere. Ha detto, cercando di compiacermi, “a causa della sua densità”, quando la risposta attesa era “così non schizza”. Immagino che quel collega (collega, perché alla fine ha superato l’esame) abbia preferito per tutta la vita una birretta all’odiato chufly.
In un’altra occasione ho voluto sottolineare l’inutilità delle relazioni accademiche che eravamo costretti a compilare ogni semestre in moduli sempre più ampollosi e complicati. Così ho iniziato compilando correttamente la relazione, ma dopo poche righe ho proseguito con la storia di Cappuccetto Rosso. Ancora oggi sto aspettando che qualcuno mi riprenda per aver preso in giro la solennità accademica. La verità è che nessuno legge questi noiosi rapporti, ma tutti li richiedono con il conseguente spreco di tempo e carta. Infine, durante una delle campagne della Radiazione Ultravioletta, viaggiai a Sucre per tenere un workshop, insieme ad altri colleghi, e, nel tempo libero, mi sono recato alla famosa fabbrica La Glorieta sperando di trovare un cappello di mio gradimento per la mia vasta collezione. Mentre parlavo con il commesso, il direttore (o forse il proprietario) è uscito dal suo ufficio. Lui, che aveva riconosciuto il mio peculiare accento italiano, mi venne incontro e mi abbracciò di cuore, dicendo che la campagna per promuovere l’uso del cappello aveva rivitalizzato la sua industria, attribuendo a me, come direttore di quella campagna, il merito di aver salvato centinaia di posti di lavoro nel settore. Mi chiese allora il permesso di prendere le misure della mia testa e promise di mandarmi a casa, gratuitamente, il modello di cappello che avevo scelto. A proposito, non ho mai ricevuto il cappello promesso, ma nessuno può togliermi il calore e la sincerità di quell’abbraccio riconoscente.