Blog de Francesco Zaratti

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In Italia ho condiviso con Adalberto la preparazione al volontariato (imparando la lingua spagnola e un po’ di storia e problemi dell’America Latina) e, una volta in Bolivia – il paese che entrambi abbiamo scelto per svolgere il nostro servizio civile per conto del governo italiano – abbiamo vissuto insieme a El Alto per due anni. Per un po’ abbiamo condiviso il letto sul mare dell’austera casa di Ciudad Satélite e lunghe conversazioni notturne sulla società boliviana nelle sue sfaccettature a noi più note: quella della periferia della metropoli (El Alto era ancora un quartiere di La Paz) e della gioventù (all’epoca eravamo entrambi professori universitari part-time).

Dopo aver terminato il volontariato ed essere già sposato con un’illustre signora boliviana, Adalberto entrò nel servizio diplomatico italiano come “lettore di italiano” in diverse università del Sud America. Poi ci perdemmo di vista fino a quando si presentò al funerale di mia madre, 25 anni fa, per riprendere un’amicizia fatta di ricordi e realtà, alcune gioiose (come i tre figli che abbiamo avuto ciascuno) e altre tristi (le perdite familiari e il deterioramento della situazione coniugale).

Circa tre anni fa, il figlio di mezzo, Piero, mi chiamò per chiedermi aiuto. Suo padre era entrato nella spirale irreversibile dell’Alzheimer e, in quella nebbia che cominciava a penetrare nella sua mente, reagiva ancora positivamente al mio nome. Siamo riusciti a chiacchierare per qualche minuto al telefono, poi ci siamo scambiati un paio di foto di “quei tempi di El Alto” e ci proponemmo di mantenerci aggiornati. L’abbiamo fatto, anche se in modo discontinuo. Così ho saputo, e osservato, che la malattia stava avanzando, lentamente ma inesorabilmente.

All’inizio del mese, Piero mi scrisse di nuovo, per farmi sapere che era arrivato a La Paz con suo padre per una visita di famiglia (e a sua nonna specialmente), sperando di risvegliare in Adalberto ricordi che potessero rallentare o ritardare la progressione della malattia. Tuttavia, al pranzo di famiglia che abbiamo avuto qualche giorno dopo, ho potuto verificare il deterioramento del suo stato mentale e la discrepanza che sentiva, con grande sofferenza, tra ciò che voleva esprimere e le parole sconnesse che uscivano dalla sua bocca. Quando ci siamo salutati, ci siamo sciolti in un lungo abbraccio, mentre lui continuava a ripetermi, tra le lacrime: “Ti amo molto”, più che compensando i frustrati tentativi di conversazione durante la riunione.

Mentre scrivo, Piero sta riportando il padre a Venezia, dove risiedono, con poche emozioni recuperate dal ritorno in Bolivia. Adalberto tornerà alla sua routine: nella casa di riposo di giorno, e, di notte, sotto le cure di un’infermiera, reciterà il rosario, mentre Piero cercherà di recuperare, grazie a un lavoro “cadutogli dal cielo”, la sua vita lavorativa, unita a un servizio filiale, amorevole e paziente.

Per questo dico: grazie Piero! per avermi ricordato il senso profondo del comandamento biblico di “onorare i genitori”; che non è solo prendersi cura di loro, non solo non abbandonarli nella loro vecchiaia, ma onorarli, renderli degni del dono gioioso del nostro tempo e della nostra vita, anche se non lo apprezzano con la mente, ma con il cuore. La letteratura e il cinema hanno descritto, con approcci diversi (anche per giustificare l’eutanasia – la cancellazione intenzionale di ogni memoria), il calvario delle persone che entrano in quella spirale di progressiva perdita di memoria fino a vivere senza passato, come se dietro ci fosse solo una notte buia. È come morire senza essere ancora morto. È, per quanto ho capito, soffrire senza sapere perché, o forse sapendolo, ma senza poterlo esprimere. É una vita senza ricordi del male seminato, ma nemmeno del bene dato e ricevuto.

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